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Il regalo dei morticini. Se lo avete ricevuto, siete fortunati!

di Alessia Giaquinta

Ecco, questo regalo me lo hanno portato i morticini. E a te cosa hanno fatto trovare?”.

Erano queste le parole che, da bambini, usavamo nei primi e attesissimi giorni di novembre.

Ricordate anche voi questi momenti? Allora siete fortunati!

Le giovani generazioni non conoscono più l’attesa dei “morticini”, non sanno più trovare un senso ad un gesto che andava oltre il dono materiale…

Allora voglio raccontare, soprattutto a chi non l’ha mai vissuto, l’entusiasmo del regalo dei morticini, l’origine di questa festa e i dolci che l’hanno sempre caratterizzata, in Sicilia.

IL GIORNO “DEI MORTI” DI CAMILLERI

«Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.

A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.

Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.»

Da “Il giorno che i morti persero la strada di casa” da I racconti quotidiani di Andrea Camilleri (Qua e là per l’Italia- Alma edizione, Firenze 2008)

ORIGINE DELLA FESTA E TRADIZIONI IN SICILIA

Si tratta di una ricorrenza antica. Risale al X secolo l’usanza di celebrare i defunti, all’indomani di quella che papa Gregorio IV indicò come nuova data per celebrare la festa di Tutti i Santi (che fino all’835 d.C. ricadeva nel mese di maggio).

L’intenzione era quella di integrare e reinterpretare il culto pagano del “Samhain“, il capodanno celtico celebrato il 31 ottobre in cui si credeva che “tutte le anime” si unissero al mondo dei viventi in un’unica grande festa che segnava la conclusione dell’anno estivo e l’inizio del periodo freddo.

L’emigrazione di gruppi di irlandesi verso l’America permise a questa festa di propagarsi nel nuovo continente con caratteristiche nuove e con un nome che richiama l’antico senso: Halloween, ossia “vigilia di tutti i santi”.  Hallow infatti è la parola arcaica inglese che significa Santo e “Eve” indica la vigilia.

In Sicilia si diede, sin da subito, particolare importanza alla festa dei morti, stabilita nel calendario cristiano il 2 novembre, dopo che il religioso cluniacense Odilione, a causa di una tempesta, approdò in un’isola del mare siciliano. L’eremita che lo soccorse gli spiegò che a causare la tempesta erano proprio le anime vaganti del Purgatorio, a cui servivano messe e preghiere per raggiungere il Paradiso. Fu proprio a seguito di questo che il monaco cluniacense ordinò che il giorno seguente della festa di “Tutti i Santi”, venissero commemorati i defunti.

Accanto alle messe, preghiere, fiori e visite ai cimiteri, in Sicilia si sviluppò anche una forma di esorcizzazione della morte: creare un legame tra passato e futuro di cui il “regalo dei morticini” divenne l’emblema.

Da qui l’origine delle numerose fiere, in tante città siciliane, dove poter acquistare giocattoli, abbigliamento e dolcetti per questa festa.

I DOLCI “DEI MORTI”

Non c’è festa senza dolci, si sa. Per questa ricorrenza, in Sicilia, si prepara la frutta martorana, i pupi di zucchero, i mustacciola, le ossa di morto, i nucatoli, i tetù e i taralli.

Inoltre è usanza mangiare macco di fave poiché, anticamente, si credeva che le fave contenessero le anime dei  trapassati.

La preghiera da recitare, prima dei pasti, o al mattino di questa ricorrenza, era:

Armi santi, armi santi,

Io sugnu unu e vuatri sisi tanti,

Mentre sugnu ‘ntra stu munnu di guai,

Cosi di morti mittitiminni assai”.

E se tornassimo a fare i “regali dei morticini”, se ci riappropriassimo della nostra cultura (che non esclude mai anzi, ingloba al suo interno migliaia di sfaccettature e altre tradizioni), se spiegassimo nuovamente ai nostri figli ciò che è stato, forse capiremmo che è necessario tornare a farlo ancora.

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